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  • il barone rampante IV

    dinozhang 发表于:2009-10-18 赞一个(0) 收藏     分享到朋友圈     0 19837

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    发表于:2009-10-18IP属地: 意大利 罗马市

    Io non so se sia vero quello che si legge nei libri, che in antichi tempi una scimmia che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro poteva arri­vare in Spagna senza mai toccare terra. Ai tempi miei di luoghi così fitti d’alberi c’era solo il golfo d’Ombrosa da un capo all’altro e la sua valle fin sulle creste dei monti; e per questo i nostri posti erano nominati dappertutto.

    Ora, già non si riconoscono più, queste contra­de. S’è cominciato quando vennero i Francesi, a ta­gliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pa­reva una cosa della guerra, di Napoleone, di quei tempi: invece non si smise più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che li conoscevamo da prima, fa impressione.

    Allora, dovunque s’andasse, avevamo sempre rami e fronde tra noi e il cielo. L’unica zona di ve­getazione più bassa erano i limoneti, ma anche là in mezzo si levavano contorti gli alberi di fico, che più a monte ingombravano tutto il cielo degli orti, con le cupole del pesante loro fogliame, e se non erano fichi erano ciliegi dalle brune fronde, o più teneri cotogni, peschi, mandorli, giovani peri, pro­dighi susini, e poi sorbi, carrubi, quando non era un gelso o un noce annoso. Finiti gli orti, comincia­va l’oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca a mezza costa. In fondo c’era il paese accatastato, tra il porto in basso e in su la rocca; ed anche lì, tra i tetti, un continuo spuntare di chiome di piante: lecci, platani, anche roveri, una vegetazione più di­sinteressata e altera che prendeva sfogo - un ordi­nato sfogo - nella zona dove i nobili avevano co­struito le ville e cinto di cancelli i loro parchi.

    Sopra gli olivi cominciava il bosco. I pini doveva­no un tempo aver regnato su tutta la plaga, perché ancora s’infiltravano in lame e ciuffi di bosco giù per i versanti fino sulla spiaggia del mare, e così i larici. Le roveri erano più frequenti e fitte di quel che oggi non sembri, perché furono la prima e più pregiata vittima della scure. Più in su i pini cedeva­no ai castagni, il bosco saliva la montagna, e non se ne vedevano confini. Questo era l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo, abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene.

    Il primo che vi fermò il pensiero fu Cosimo. Capì che, le piante essendo così fitte, poteva passando da un ramo all’altro spostarsi di parecchie miglia, senza bisogno di scendere mai. Alle volte, un tratto di terra spoglia l’obbligava a lunghissimi giri, ma lui presto s’impratichì di tutti gli itinerari obbligati e misurava le distanze non più secondo i nostri estimi, ma sempre con in mente il tracciato contor­to che doveva seguire lui sui rami. E dove neanche con un salto si raggiungeva il ramo più vicino, pre­se a usare degli accorgimenti; ma questo lo dirò più in là; ora siamo ancora all’alba in cui svegliandosi si trovò in cima a un elce, tra lo schiamazzo degli storni, madido di rugiada fredda, intirizzito, le os­sa rotte, il formicolio alle gambe ed alle braccia, e felice si diede a esplorare il nuovo mondo.

    Giunse sull’ultimo albero dei parchi, un platano. Giù digradava la valle sotto un cielo di corone di nubi e fumo che saliva da qualche tetto d’ardesia, casolari nascosti dietro le ripe come mucchi di sas­si; un cielo di foglie alzate in aria dai fichi e dai ci­liegi; e più bassi prugni e peschi divaricavano tar­chiati rami; tutto si vedeva, anche l’erba, fogliolina a fogliolina, ma non il colore della terra, ricoperta dalle pigre foglie della zucca o dall’accesparsi di lattughe o verze nei semenzai; e così era da una parte e dall’altra del V in cui s’apriva la valle ad un imbuto alto di mare.

    E in questo paesaggio correva come un’onda, non visibile e nemmeno, se non di tanto in tanto, udibile, ma quel che se n’udiva bastava a propa­garne l’inquietudine: uno scoppio di gridi acuti tutt’a un tratto, e poi come un croscio di tonfi e forse anche lo scoppio d’un ramo spezzato, e ancora gri­da, ma diverse, di vociacce infuriate, che andavano convergendo nel luogo da cui prima erano venuti i gridi acuti. Poi niente, un senso fatto di nulla, co­me d’un trascorrere, di qualcosa che c’era da aspet­tarsi non là ma da tutt’altra parte, e difatti ripren­deva quell’insieme di voci e rumori, e questi luoghi di probabile provenienza erano, di qua o di là della valle, sempre dove si muovevano al vento le picco­le foglie dentate dei ciliegi. Perciò Cosimo, con la parte della sua mente che veleggiava distratta - un’altra parte di lui invece sapeva e capiva tutto in precedenza - formulò questo pensiero: le ciliegie parlano.

    Era verso il più vicino ciliegio, anzi una fila d’alti ciliegi d’un bel verde frondoso, che Cosimo si diri­geva, e carichi di ciliege nere, ma mio fratello anco­ra non aveva l’occhio a distinguere subito tra i rami quello che c’era e quello che non c’era. Stette lì: prima ci si sentiva del rumore ed ora no. Lui era sui rami più bassi, e tutte le ciliege che c’erano so­pra di lui se le sentiva addosso, non avrebbe sapu­to spiegare come, parevano convergere su di lui, pareva insomma un albero con occhi invece che ci­liege.

    Cosimo alzò il viso e una ciliegia troppo matura gli cascò sulla fronte con un ciacc! Socchiuse le pal­pebre per guardare in su controcielo (dove il sole cresceva) e vide che su quello e sugli alberi vicini c’era pieno di ragazzi appollaiati.

    Al vedersi visti non stettero più zitti, e con voci acute benché smorzate dicevano qualcosa come: - Guardalo lì quanto l’è bello! - e spartendo da­vanti a sé le foglie ognuno dal ramo in cui stava scese a quello più basso, verso il ragazzo col tricor­no in capo. Loro erano a capo nudo o con sfrangia­ti cappelli di paglia, e alcuni incappucciati in sacchi; vestivano lacere camicie e brache; ai piedi chi non era scalzo aveva fasce di pezza, e qualcuno le­gati al collo portava gli zoccoli, tolti per arrampicar­si; erano la gran banda dei ladruncoli di frutta, da cui Cosimo ed io c’eravamo sempre - in questo ob­bedienti alle ingiunzioni familiari - tenuti ben lon­tani. Quel mattino invece mio fratello sembrava non cercasse altro, pur non essendo nemmeno a lui ben chiaro che cosa se ne ripromettesse.

    Stette fermo ad aspettarli mentre calavano indi­candoselo e lanciandogli, in quel loro agro sottovo­ce, motti come: - Cos’è ch’è qui che cerca questo qui? - e sputandogli anche qualche nocciolo di ci­liegia o tirandogliene qualcuna di quelle bacate o beccate da un merlo, dopo averle fatte vorticare in aria sul picciòlo con mossa da frombolieri.

    - Uuuh! - fecero tutt’a un tratto. Avevano visto lo spadino che gli pendeva dietro. - Lo vedete cosa ci ha? - E giù risate. - Il battichiappe!

    Poi fecero silenzio e soffocavano le risa perché stava per succedere una cosa da diventare matti dal divertimento: due di questi piccoli manigoldi, zitti zitti, si erano portati su di un ramo proprio sopra a Cosimo e gli calavano la bocca d’un sacco sulla te­sta (uno di quei lerci sacchi che a loro servivano certo per metterci il bottino, e quando erano vuoti si acconciavano in testa come cappucci che scende­vano sulle spalle). Tra poco mio fratello si sarebbe trovato insaccato senza neanche capir come e lo potevano legare come un salame e caricarlo di pe­stoni.

    Cosimo fiutò il pericolo, o forse non fiutò niente: si sentì deriso per lo spadino e volle sfoderarlo per punto d’onore. Lo brandì alto, la lama sfiorò il sac­co, lui lo vide, e con un’accartocciata lo strappò di mano ai due ladroncelli e lo fece volar via.

    Era una buona mossa. Gli altri fecero degli «Oh!» insieme di disappunto e meraviglia, e ai due compari che s’erano lasciati portar via il sacco lan­ciarono insulti dialettali come: - Cuiasse! Belinùi!

    Non ebbe tempo di rallegrarsi del successo, Cosi­mo. Una furia opposta si scatenò da terra; latrava­no, tiravano dei sassi, gridavano: - Stavolta non ci scappate, bastardelli ladri! - e s’alzavano punte di forcone. Tra i ladruncoli sui rami ci fu un rannic­chiarsi, un tirar su di gambe e gomiti. Era stato quel chiasso attorno a Cosimo a dar l’allarme agli agricoltori che stavano all’erta.

    L’attacco era preparato in forze. Stanchi di farsi rubar la frutta man mano che maturava, parecchi dei piccoli proprietari e dei fìttavoli della vallata s’erano federati tra loro; perché alla tattica dei furfantelli di dar la scalata tutti insieme a un frutteto, saccheggiarlo e scappare da tutt’altra parte, e lì daccapo, non c’era da opporre che una tattica simi­le: cioè far la posta tutti insieme in un podere dove prima o poi sarebbero venuti, e prenderli in mez­zo. Ora i cani sguinzagliati abbaiavano rampando al piede dei ciliegi con bocche irte di denti, e in aria si protendevano le forche da fieno. Dei ladruncolitre o quattro saltarono a terra giusto in tempo per farsi bucare la schiena dalle punte dei tridenti e il fondo dei calzoni dal morso dei cani, e correre via urlando e sfondando a testate i fìlari delle vigne. Così nessuno osò più scendere: stavano sbigottiti sui rami, tanto loro che Cosimo. Già gli agricoltori mettevano le scale contro i ciliegi e salivano facen­dosi precedere dai denti puntati dei forconi.

    Ci vollero alcuni minuti prima che Cosimo capis­se che essere lui spaventato perché era spaventata quella banda di vagabondi era una cosa senza sen­so, Com’era senza senso quell’idea che loro fossero tanto in gamba e lui no. Il fatto che se ne stessero lì come dei tonti era già una prova: cosa aspettavano a scappare sugli alberi intorno? Mio fratello così era giunto fin lì e così poteva andarsene: si calcò il tri­corno in testa, cercò il ramo che gli aveva fatto da ponte, passò dall’ultimo ciliegio a un carrubo, dal carrubo penzolandosi calò su di un susino, e così via. Quelli, al vederlo girare per quei rami come fosse in piazza, capirono che dovevano tenergli su­bito dietro, se no prima di ritrovare la sua strada chissà quanto avrebbero penato; e lo seguirono zit­ti, carponi per quell’itinerario tortuoso. Lui intan­to, salendo per un fico, scavalcava la siepe del cam­po, calava su di un pesco, tenero di rami tanto che bisognava passarci uno alla volta. Il pesco serviva solo ad aggrapparsi al tronco storto d’un olivo che sporgeva da un muro; dall’olivo con un salto s’era su una rovere che allungava un robusto braccio ol­tre il torrente, e si poteva passare sugli alberi di là.

    Gli uomini con le forche, che credevano ormai d’avere in mano i ladri di frutta, se li videro scap­pare per l’aria come uccelli. Li inseguirono, corren­do insieme ai cani latranti, ma dovettero aggirare la siepe, poi il muro, poi in quel punto del torrente non c’erano ponti, e per trovare un guado persero tempo ed i monelli erano lontani che correvano.

    Correvano come cristiani, con i piedi per terra. Sui rami c’era rimasto solo mio fratello. - Dov’è fi­nito quel saltimpalo con le ghette? - si chiedevano loro, non vedendoselo più davanti. Alzarono lo sguardo: era là che rampava per gli olivi. - Ehi, tu, cala dabbasso, ormai non ci pigliano! - Lui non ca­lò, saltò tra fronda e fronda, da un olivo passò a un altro, sparì alla vista tra le fitte foglie argentee.

    Il branco dei piccoli vagabondi, con i sacchi per cappuccio e in mano canne, ora assaltava certi cilie­gi in fondo valle. Lavoravano con metodo, spo­gliando ramo dopo ramo, quando, in cima alla pianta più alta, appollaiato con le gambe intreccia­te, spiccando con due dita i picciòli delle ciliege e mettendole nel tricorno posato sulle ginocchia, chi videro? Il ragazzo con le ghette! - Ehi, di dove arri­vi? - gli chiesero, arroganti. Ma c’erano restati ma­le perché pareva proprio che fosse venuto lì vo­lando.

    Mio fratello ora prendeva a una a una le ciliege dal tricorno e le portava alla bocca come fossero canditi. Poi soffiava via i noccioli con uno sbuffo delle labbra, attento che non gli macchiassero il panciotto.

    - Questo mangiagelati, - disse uno, - cosa avan­za da noi? Perché ci viene tra i piedi? Perché non si mangia quelle del suo giardino, di ciliege? - Ma erano un po’ intimiditi, perché avevano capito che sugli alberi era più in gamba lui di tutti loro.

    - Tra questi mangiagelati, - disse un altro, - ogni tanto ne nasce per sbaglio uno più in gamba: vedi la Sinforosa...

    A questo nome misterioso, Cosimo tese l’orec­chio e, non sapeva nemmeno lui perché, arrossì.

    - La Sinforosa ci ha tradito! - disse un altro.

    - Ma era in gamba, per essere una mangiagelati pure lei, e se ci fosse stata ancora lei a suonare il corno stamane non ci avrebbero preso.

    - Può stare con noi anche un mangiagelati, si ca­pisce, se vuole essere dei nostri!

    (Cosimo capì che mangiagelati voleva dire abitan­te delle ville, o nobile, o comunque persona altolo­cata).

    - Senti tu, - gli disse uno, - patti chiari: se vuoi essere con noi, le battute le fai con noi e ci insegni tutti i passi che sai.

    - E ci lasci entrare nel frutteto di tuo padre! - disse un altro. - A me una volta mi ci hanno spara­to col sale!

    Cosimo li stava a sentire, ma come assorto in un suo pensiero. Poi fece: - Ma ditemi, chi è la Sinfo­rosa?

    Allora tutti quegli straccioncelli tra le fronde scoppiarono a ridere, a ridere, tanto che qualcuno per poco non cadeva dal ciliegio, e qualcuno si but­tava indietro tenendosi con le gambe al ramo, e qualcuno si lasciava penzolare appeso per le mani, sempre sghignazzando e urlando.

    Con quel chiasso, si capisce, riebbero gli insegui­tori alle calcagna. Anzi doveva esser proprio lì, la squadra di quelli coi cani, perché si levò un alto ab­baio e rieccoli lì tutti con le forche. Solo che questa volta, fatti esperti dallo scacco subito, per prima co­sa occuparono gli alberi intorno salendoci con scale a pioli, e di là coi tridenti e i rastrelli li circondava­no. A terra, i cani, in quel diramare di uomini su per le piante, non capirono subito da che parte aiz­zarsi e restarono un po’ sparpagliati ad abbaiare a muso all’aria. Così i ladruncoli poterono buttarsi svelti a terra, correre via ognuno da una parte, in mezzo ai cani disorientati, e se qualcuno di loro prese un morso in un polpaccio o una bastonata o una pietrata, i più sgombrarono sani il campo.

    Sull’albero restò Cosimo. - Scendi! - gli gridava­no gli altri salvandosi. - Che fai? Dormi? Salta a terra finché la via è sgombra! - Ma lui, stretto coi ginocchi al ramo, sguainò lo spadino. Dagli alberi vicini, gli agricoltori sporgevano le forche legate in cima a bastoni per arrivarlo, e Cosimo, mulinando lo spadino, le teneva lontane, finché non glie ne puntarono una in pieno petto inchiodandolo al tronco.

    - Ferma! - gridò una voce. - È il Baroncino di Piovasco! Cosa fa, signorino, costassù? Come mai s’è mischiato con quella marmaglia?

    Cosimo riconobbe Giuà della Vasca, un manente di nostro padre.

    Le forche si ritirarono. Molti della squadra si tol­sero il cappello. Anche mio fratello sollevò con due dita il tricorno dal capo e s’inchinò.

    - Ehi, voi di giù, legate i cani! - gridarono quelli. - Fatelo scendere! Può scendere, signorino, ma stia attento che l’albero è alto! Aspetti, le mettiamo una scala! Poi la riaccompagno a casa io!

    - No, grazie, grazie - disse mio fratello. - Non v’incomodate, so la mia strada, so la mia strada da me!

    Sparì dietro il tronco e riapparve su un altro ra­mo, girò ancora dietro il tronco e riapparve un ra­mo più su, risparì dietro il tronco ancora e se ne vi­dero solamente i piedi su un ramo più alto, perché sopra c’erano fitte fronde, e i piedi saltarono, e non si vide più niente.

    - Dov’è andato? - si dicevano gli uomini, e non sapevano dove guardare, su o giù.

    - Eccolo! - Era in cima a un altro albero, distan­te, e risparì.

    - Eccolo! - Era in cima a un altro ancora, ondeg­giava come portato dal vento, e fece un salto.

    - È caduto! No! È là! - Se ne vedeva, sopra lo svettare del verde, solo il tricorno ed il codino.

    - Ma che padrone ci hai? - chiesero quelli a Giuà della Vasca. - È uomo o animale selvatico? O è il diavolo in persona?

    Giuà della Vasca era restato senza parola. Si segnò.

    S’udì il canto di Cosimo, una specie di grido sol­feggiato.

    - O la Sin-fo-ro-saaa...!

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